Il prete diocesano vive in un crocevia di numerose e forti tensioni provocate
dagli aspetti ostili della cultura e dell’ambiente, dalla necessità di
ridisegnare una propria identità come richiesto dai processi di adattamento
dovuti alla scarsità del clero, dalle disparate richieste che gli
vengono rivolte in relazione al proprio ruolo ecclesiale. Per queste ragioni
gli Autori (don Enrico Parolari, psicoterapeuta dell’equipe psicologica
del seminario di Milano, e don Donato Pavone, delegato per la
formazione permanente del clero e consulente psicologico del seminario
di Treviso), descrivono la condizione del prete come particolarmente
‘esposta’ e quindi bisognosa di cura formativa, soprattutto nel
campo relazionale, ambito privilegiato nel quale oggi si gioca un ministero
che voglia essere evangelicamente significativo. Le interazioni pastorali,
infatti, innescano nella vita del presbitero dei profondi cambiamenti
affettivi, che chiedono di essere da lui riconosciuti e interpretati,
affinché lo stile e la qualità delle sue relazioni sappiano realmente tradurre
quella ‘carità pastorale’ che rappresenta il suo modo tipico di ricevere
e donare. Il saggio, che riprende alcuni ambiti di lavoro proposti
nelle settimane residenziali di formazione che nell’arco di due anni
hanno coinvolto tutti i preti della diocesi di Treviso, mostra come, a determinate
condizioni, sia il ministero stesso «la strada maestra che il
presbitero ha a disposizione per maturare nella relazione con Dio e
nella santità». Per questo è richiesto al prete, oltre all’evangelica comprensione
di celibato e castità, «la sua deliberata scelta di prendersi cura
di sé, del rapporto con il Signore e della propria identità presbiterale:
è il prete a doversi mantenere, per tutta la vita, in un sincero
atteggiamento di autentica conversione».
«Viviamo incalzati, indifesi dall’ansia di ciò che accade. Aggrediti e
istintivamente aggressivi». Queste parole con cui inizia la profonda
meditazione di Madre Maria Ignazia Angelini (badessa del Monastero
benedettino di Viboldone) esprimono bene il clima diffuso di questo
tempo. Il registro del lamento rischia di permeare il nostro stare
al mondo e di farci perdere il contatto con la realtà, tenuta a
distanza dall’insoddisfazione. Rimedio radicale a tale disposizione
dell’anima è l’eulabeia, letteralmente «prendere bene le cose, per il
lato giusto», vederne il lato buono. Questa adesione alla realtà non
è facile. Presuppone un affidamento fondamentale del vivere, che si
matura soprattutto nel crogiolo del dolore e nella nudità del fallimento,
passaggi obbligati per ogni essere umano. Possiamo farlo alla
scuola di Gesù, seguendolo nel suo affidarsi anche nell’ora decisiva
della pasqua. E sapendo che in tale abbandono si può far conto
sul Padre. Prendere bene tutte le cose consente di gustare la vita
proprio così com’è, riscattandola dalla vacuità a cui l’insoddisfazione
o il lamento finiscono per condannarla.
Pubblichiamo qui la seconda parte del bel dittico di don Roberto
Vignolo, docente di Esegesi e Teologia biblica alla Facoltà teologica
di Milano, sulla preghiera di invocazione. Dopo aver analizzato la
letteratura salmica (sul numero 7-8/2011), il saggio prende ora in
esame la storia di Anna (1Sam 1-2), emblematica nel mostrare le
potenzialità trasformatrici della preghiera in un’esistenza concreta.
Il brano in esame permette infatti di cogliere narrativamente la trasformazione
degli affetti mediante l’invocazione del Nome, dalla
supplica alla lode, attraverso l’attesa e il silenzio. Qui è infatti ben
descritta l’esperienza che permette di passare oltre il dolore e l’avvilimento:
«Non necessariamente la soluzione immediata dei problemi,
quanto piuttosto la certezza di essere ascoltati, esauditi». In
tale passaggio verso il recupero della speranza, assume rilievo singolare
il sostegno d’una parola umana autorevole oltre che d’una
rinnovata grazia tutta interiore.
P. Antonio Spadaro, gesuita e neo-direttore della Civiltà Cattolica, ci
invita con questa sua riflessione a esplorare in profondità il senso di
Internet, realtà dagli inediti e importanti significati per la storia della
cultura umana, vero spazio invisibile delle conoscenze, dei saperi e
delle potenzialità di pensiero. La ricerca si avvantaggia della riflessione
di Pierre Lévy e Pierre Theilard de Chardin che, pur a partire da
contesti storici e ideologici diversi, convergono nell’indicare come sia
arduo pensare un fenomeno complesso come la Rete senza una forma
mentis teologica. Nonostante alcune ambiguità, Theilard, molto
più di Lévy, offre spunti capaci di immaginare Internet come spazio di
una positiva e crescente intelligenza ‘convergente’ ma non ‘collettiva’,
capace di salvaguardare la libertà individuale e l’originalità dei soggetti.
«In questo senso Teilhard dà un significato di fede alle dinamiche
proprie dello spazio antropologico che è la Rete, che a questo
punto può essere intesa anch’essa parte di quell’unico “ambiente divino”
che è il nostro mondo».
Si è recentemente svolta a Kingston (Giamaica) la Convocazione ecumenica internazionale sulla pace promossa dal Consiglio mondiale delle Chiese. L’assemblea, a motivo del rilievo del tema trattato e della partecipazione di oltre 250 Chiese cristiane, rappresenta un importante evento sul quale riflettere, anche se per ragioni storiche e teologiche la Chiesa cattolica non vi ha partecipato in forma ufficiale. Paolo Colombo, responsabile regionale agli Studi e alla Vita cristiana di ACLI Lombardia, ha presenziato all’evento in qualità di invitato e offre qui una presentazione ragionata dei principali interventi emersi e delle linee di pensiero discusse. La Convocazione ha rappresentato un momento di rinnovata consapevolezza sul ruolo che i cristiani e le Chiese devono mantenere nel realizzare la pace e la giustizia, in primo luogo al loro interno e quindi diventando sale e lievito per i contesti economici, sociali e politici in cui sono inseriti. Su questi temi ha infatti insistito il Messaggio conclusivo, a partire dalla consapevolezza che la pace e la costruzione della pace sono parte indispensabile della fede comune, in obbedienza a un Dio «che è venuto come un bambino indifeso, è morto sulla croce, ci ha detto di deporre le nostre spade, ci ha insegnato ad amare i nostri nemici ed è risuscitato dalla morte».