Spesso l’omelia, anche a livello di opinione pubblica, viene criticata
perché noiosa o ‘obesa’ o moraleggiante o aggressiva. D’altra parte
essa, di fatto, oggi svolge una funzione troppo importante nel favorire
la trasmissione della fede e la stessa conoscenza del Cristo Signore
per essere semplicemente lasciata ai gusti personali del predicatore.
La riflessione di Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose,
descrive i caratteri dell’omelia cristiana, fondandoli anzitutto sullo
stile della predicazione di Gesù, la cui sapienza, autorità e passione
costituiscono il modello insuperabile per chi annuncia la Parola. L’approfondimento
di queste tre caratteristiche offre un utile stimolo alla
verifica dell’effettiva qualità delle nostre prediche, richiamando al
dovere dell’imitazione di Cristo, per poter poi parlare ‘come’ Lui, ma
anche alla ‘compassione’ per la comunità ricevuta dal Signore: infatti,
quando questa manca, «allora proprio nell’omelia appaiono tutte le
patologie del pastore: la collera, l’aggressione, il disprezzo, il rigorismo.
E così la buona notizia risulta mortificata da una cattiva comunicazione,
dove l’aggettivo “cattiva” non significa povera, ma fatta con
sentimenti che non esprimono l’amore preveniente e sempre gratuito,
la misericordia infinita di Dio, anzi li contraddicono».*
Torniamo sul tema educativo con la provocatoria riflessione di don
Armando Matteo, assistente generale della FUCI. La sua analisi intende
anzitutto disegnare lo sfondo generale sul quale si colloca l’educazione
giovanile, impresa ai limiti dell’improbabile a motivo dei
connotati assunti dall’attuale generazione adulta, che ha sequestrato
per sé l’ideale della gioventù, venendo così radicalmente meno a
quel ruolo di controparte autorevole, necessaria per stabilire la relazione
educativa: «Gli adulti si sono dunque così avvicinati ai giovani
da confondersi con essi, rendendo ogni dialogo impossibile». Dal
ripristino e dalla salvaguardia delle differenze si deve quindi ripartire
per dare dignità all’età giovanile, ora costretta in una sorta di sterile
limbo, che impedisce ai giovani di crescere e ‘giovare’ all’intera
società, ma anche agli adulti di assumere le responsabilità proprie alla
loro condizione anagrafica: «Se dunque negli adulti non vi è più
nulla o quasi oltre quel mito della giovinezza che li sta consumando,
quali ragioni avrebbero i giovani per entrare in dialogo con loro, potendo
essi stessi contare su una giovinezza vera e non artificiale?».
Immersi in un ritmo di vita di cui nemmeno siamo consapevoli, non
ci rendiamo conto che Chronos divora i suoi figli. Del tempo, e soprattutto
della sua forma accelerata, non siamo padroni ma succubi,
non immaginando neppure la possibilità di modi diversi, e più
umani, di viverlo.Alessandro Zaccuri, scrittore, giornalista di «Avvenire
» e attento interprete della cultura attuale, presenta un’acuta disamina
delle forme con le quali oggi, quasi inconsapevolmente, affrontiamo
il tempo quotidiano: tempo ‘pieno’, affollato da veloci
frammenti di esperienza, tempo che mira alla velocità e all’accumulo
di prestazioni simultanee in una continua ricerca del multitasking.
Tuttavia, oltre l’apparente condanna a rimbalzare in un tempo schiacciato
fra le due dimensioni di un otium svilito e di un negotium sempre
più pervasivo, oggi si affaccia anche la nostalgia per quel «momento
in più» che «potrebbe essere l’epifania che si rivela inattesa
mentre siamo lì davanti al computer e, provando a non fare nulla per
un minuto o due, ci ritroviamo a essere ciò che effettivamente siamo:
creature che attendono, persone che vivono nell’attenzione generata
dalla speranza».
In questa seconda parte del suo contributo (per la prima cfr. 1/2011,
pp.18-29) p. Etienne Grieu S.J., dopo aver completato la descrizione del
nuovo panorama religioso in Occidente, analizza le difficoltà oggi patite
dalla Chiese tradizionali, spesso percepite come fredde e distanti dai
credenti nonché frenate dal loro macchinoso apparato istituzionale.
Tuttavia i limiti che obiettivamente appesantiscono il cammino delle
grandi ‘Chiese popolari’ non segnano un declino inarrestabile. L’Autore,
al contrario, ritiene che una nuova Chiesa sia in gestazione e possa
ancora rappresentare una preziosa risorsa per il futuro. Ciò sarà possibile
a patto di inventare un modo nuovo di declinare la vocazione delle
grandi Chiese: se un tempo, cercando di gestire le società, le ‘Chiese
popolari’ si sforzavano di infondere in esse elementi di una struttura
mutuata dal cristianesimo, oggi il loro obiettivo primario dovrebbe essere
quello di permettere che ognuno dei loro membri faccia esperienza
della prossimità del Cristo, diventando esse stesse ambienti propizi
all’esperienza spirituale. Ma ciò non significa affatto una riduzione
intimistica della fede, come avviene nelle piccole comunità di convertiti.
Piuttosto le grandi Chiese possono e devono far sentire una speranza
per il mondo attuale, che va declinata dentro la società e la storia.
L’articolo è apparso originariamente sulla rivista della Conferenza
episcopale francese «Documents Episcopat», n. 8/2010.
Il denso studio di Luca Diotallevi, docente di Sociologia all’Università
di Roma Tre, affronta la questione delle possibili forme di sopravvivenza
delle Chiese occidentali nell’odierno contesto sociale
che vede un intero ‘mondo’ finire. Infatti per circa tre secoli le comunità
dei credenti hanno vissuto in un mondo, quello delle state
society, caratterizzato da una rilevante infrastruttura religiosa a matrice
cristiana, dove lo Stato legittimava la religione e le assegnava
un ruolo. Ora che questo ‘mondo cristiano’ sta scomparendo, accompagnato
dal tramonto di un sistema di riferimenti abituali e
rassicuranti, siamo provocati direttamente, come cristiani e come
Chiesa, e invitati a una coraggiosa operazione di discernimento. La
riflessione del prof. Diotallevi, dopo aver fornito le categorie necessarie
alla comprensione della problematica di fondo, si propone
di offrire il contributo della sociologia nel cogliere sia gli elementi
di rischio implicati in questo delicato passaggio sia (nella
seconda parte dell’articolo, che verrà pubblicata sul n. 3/2011) le
opportunità di cui la Chiesa italiana dispone nell’immaginarsi in un
futuro diverso.
Carità e giustizia sono parole che vengono sovente poste in relazione
nel linguaggio dei cristiani, a volte senza la consapevolezza
del loro legame e della problematica teologica alla quale rimandano.
La bella riflessione di don Aristide Fumagalli, docente di Teologia
morale presso la Facoltà teologica di Milano, contestualizza l’affermazione
di Caritas in Veritate n. 6 in un’ampia riflessione
antropologica al fine di sottolineare il rilievo relazionale di entrambe
le categorie che rappresentano il livello, rispettivamente,
basilare e superiore dell’alleanza sociale. Infatti, «la possibilità di intendere
la giustizia come misura minima della carità, e quindi la carità
come misura massima della giustizia ne assicura la continuità
e, d’altra parte, ne segnala lo scarto. Uno scarto che dà le vertigini,
poiché la carità prospetta la ricerca dell’alleanza con gli altri a
oltranza, finanche quando la loro fisionomia di amici trascolorasse
in quella dei nemici».