La ricorrenza del trentesimo anniversario della Laborem Exercens
propone l’occasione di rivalutarne l’insegnamento in relazione al suo
tema centrale: il lavoro. Don Stefano Cucchetti, docente di Teologia
morale presso il Seminario di Venegono (diocesi di Milano), propone
questo ampio studio non limitandosi a cogliere i rilevanti aspetti di
novità dell’enciclica nel quadro della Dottrina sociale della Chiesa,
ma cercando di proiettare il suo insegnamento nell’oggi, dove l’attività
lavorativa ha subito rilevanti mutamenti strutturali e culturali,
che trovano qui sintetica e aggiornata descrizione. Si tratta quindi di
una ripresa attualizzante e orientata al discernimento che la comunità
cristiana deve assumere in nome del suo ministero di evangelizzazione,
affinché oggi come ieri il lavoro possa venire ricompreso
alla luce di una visione integrale dell’uomo guidata dalla Rivelazione.
Infatti, «per quanto il lavoro appaia oggi fattore di crisi per i singoli
e per la società, esso si offre ancora come luogo in cui le comunità
cristiane possono investire creatività ed energia nella realizzazione
dei quell’’umanesimo cristiano’ (cfr. CV, 78) necessario per un vero
sviluppo».
Sullo sfondo delle celebrazioni del 150° anniversario della proclamazione
del Regno d’Italia, lo studio del prof. Giorgio Vecchio, ordinario
di Storia Contemporanea all’Università degli Studi di Parma,
analizza la complessità degli elementi che hanno concorso all’evolversi
del processo unitario italiano e l’altrettanto variegata partecipazione
delle diverse componenti del cattolicesimo italiano. Se è indubitabile
che il processo risorgimentale, caratterizzatosi in senso
conflittuale con la Chiesa, si conclude lasciando aperta una ferita tra
la coscienza nazionale e la fede religiosa, ciò non deve far dimenticare
che il Risorgimento non è accaduto senza il contributo cattolico,
«non era nato “intrinsecamente” anticristiano e che anzi tanti
erano stati i momenti di consenso e di convinta partecipazione di
laici e di preti cattolici».
L’intervento di don Guido Benzi, sacerdote della diocesi di Rimini,
biblista e direttore dell’Ufficio Catechistico Nazionale, riprende le
valenze educative del termine ‘vangelo’, evidenziate nel suo precedente
intervento (n. 1/2011), approfondendo l’inizio della Prima Lettera
ai Tessalonicesi (1,1-10). L’antico testo paolino propone l’itinerario
che quella giovane comunità cristiana ha compiuto per
maturare nella fede e divenire capace di testimonianza evangelizzatrice.
Ben si presta quindi a cogliere come la dimensione ‘pedagogica’
della fede e dell’annuncio cristiano non solo appartenga originariamente
alla vicenda cristiana, ma trovi il suo significato nella stessa
realtà teologica della potenza del vangelo: «Avendo accolto il dinamismo
della “Parola”, i cristiani di Tessalonica sono essi stessi diventati
un annuncio vivo e operante, sono essi stessi diventati, per così
dire, parola di Dio, vangelo, in tutta la loro terra e oltre».
La storia di Davide e Golia viene riletta da don Marco Pozza, giovane
sacerdote della diocesi di Padova, come un’istruttiva immagine
per comprendere la sfida del ministero in un tempo di radicali cambiamenti,
nel quale la fede fatica a prendere parola e quindi a immaginarsi
nell’azione. Il racconto biblico mostra lo scarto tra l’umanità
di Davide e il compito assegnatogli da Dio, che sembra esorbitante
e impraticabile. L’evidente sproporzione tra la sfida di Dio e la percezione
che l’uomo ha delle proprie capacità è la medesima che pone
a volte il ministro in uno stato di paura e di smarrimento, dal momento
che non sa il come di una risposta, sovente paralizzata dai
‘giganti’ nemici. Eppure, suggerisce don Pozza, il segreto dell’azione
sta, oggi come allora, nell’«inimmaginabile forza della debolezza».
«Inesperti e incapaci – e pure nel fondo magari un po’ delusi da se
stessi – nulla toglie al ministro di oggi la certezza che è in quello
scarto esistenziale che abita il segreto e la segregazione che Dio ha
preparato per i suoi scopi. Imparare a leggere quella “zona di frontiera”
è abitare una terra santa, dove i sandali devono essere levati
perché c’è una grammatica nuova da apprendere per imparare a
camminare».
A qualche mese dalla promulgazione dell’esortazione post-sinodale
Verbum Domini, don Dario Vivian, docente di Teologia pastorale presso
la Facoltà teologica di Padova, analizza il documento mettendone
in rilievo l’invito a perseguire il primato della Parola nella vita della
Chiesa. Dopo una breve presentazione del testo e della sua
struttura, lo studio si focalizza sul contesto liturgico, luogo privilegiato
dell’ascolto e dell’annuncio della Parola, e sottolinea a mo’ d’esempio
la rilevanza che Verbum Domini attribuisce alla modalità biblica
di comprensione e celebrazione del sacramento della
penitenza, cifra di una sensibilità che dovrebbe permeare l’intera
azione della Chiesa. Infatti l’esortazione «chiede che si passi da una
“pastorale biblica” alla “animazione biblica dell’intera pastorale”; un
salto di qualità notevole, non certo facile per la consueta programmazione
delle diocesi e parrocchie».