La preghiera è semplicemente essenziale per un prete, come peraltro
per ogni credente. Ne va della sua vita spirituale, della sua identità e
dell’efficacia stessa del suo ministero. Il priore di Bose entra direttamente
nel merito di un disagio diffuso in gran parte del clero: assediati
dalle molte incombenze pastorali, liturgiche e caritative, spesso i
preti sono esposti alla tentazione di non assegnare la priorità alla pratica
dello stare con il Signore. Enzo Bianchi rileva con sapienza quanto
sia decisivo perseverare nell’assiduità con il Signore, mettervi nel
conto fatica e aridità, oltre che gioia e consolazione. L’invito alla ‘manutenzione’
e alla cura attenta di questa dimensione profonda della vita
spirituale del presbitero è accompagnato dalla sottolineatura delle
specificità della sua preghiera: l’ascolto di Dio e dei fratelli («un’arte
fatta di sollecitudine, esercizio, attenzione, passione e custodia») e l’intercessione
come atto dello stare davanti a Dio in nome del popolo
che gli è stato affidato. Numerose, persuasive ed efficaci suggestioni
derivano dalla lettura di questo articolo, quasi un sintetico lessico e
una grammatica per una pratica da imparare sempre di nuovo.
Il prossimo anno verranno celebrati i 50 anni dell’apertura del Concilio Vaticano II, distanza temporale che consente di riprendere con maggior ponderazione il dibattito sul significato che quell’evento di capitale importanza assume per il futuro della Chiesa. In particolare ancora molto viva è la discussione su come debba essere interpretato il suo insegnamento in rapporto alla tradizione magisteriale della Chiesa postridentina. ll prof. Gilles Routhier, docente alla facoltà di Teologia dell’Università Laval, Québec, cerca in questo suo intervento di ricostruire tale dibattito relativamente alla disputa che contrappone un’ermeneutica della ‘rottura’ a una della ‘continuità’. In questa prima parte del suo intervento (la seconda comparirà sul n. 12 della Rivista) la ricostruzione prende le mosse dai negoziati condotti dalla Santa Sede con mons. Lefebvre e il suo gruppo, quindi analizza la scelta, operata negli anni ’80 dal card. Ratzinger, di sottolineare la ‘continuità’ dell’insegnamento conciliare in dialettica con le posizioni tradizionaliste del vescovo di Écône. Il saggio verrà completato sul prossimo numero dalla presentazione della proposta che papa Benedetto XVI ha posto in primo piano: quella di un’ermeneutica della riforma. Secondo Routhier questa autorevole indicazione rappresenta un compito importante per la teologia, che non deve accontentarsi di una concezione meccanica e ripetitiva della tradizione, fino ad ora incapace di cogliere il Concilio Vaticano II nella ricchezza dei suoi significati.
Lo splendido studio di don Roberto Vignolo, docente di Esegesi e Teologia
biblica alla Facoltà Teologica di Milano, offre una suggestiva interpretazione
del libro di Giobbe, a partire da precisi indizi testuali. In
particolare, la lettura di questo singolarissimo libro biblico prende lo
spunto dall’etimo del nome teoforico di Giobbe stesso, che letteralmente
in ebraico suona:«Dov’è il Padre?», intendendosi con Padre
Dio stesso. In effetti, la domanda segna profondamente la vicenda di
Giobbe e la sua identità. Dov’è infatti quel Dio che come un padre
dovrebbe prendersi cura dei suoi figli e non lasciare che siano esposti
al male, oltretutto nei suoi impensabili eccessi patiti da Giobbe secondo
il racconto dei primi due capitoli? Dio sembra piuttosto avere
le fattezze di un nemico, come ripetutamente Giobbe protesta: «Ha
acceso contro di me la sua ira e mi considera un nemico». Il nemico
per eccellenza, la morte, sembra agli occhi di Giobbe avere il volto di
Dio. Ma alla domanda «Dov’è il Padre?» Dio replica con un’altra e
speculare domanda: «Dov’eri tu, Giobbe, quando ponevo le fondamenta
della terra?». Queste parole rimandano alla radicale differenza
tra Dio e l’uomo, alla onnipotenza divina, buona e mite, che alla fine
Giobbe sperimenta nella teofania e nei discorsi di Dio. Di fronte al mistero
del male «Giobbe capisce che la libertà di Dio ha in serbo un’insuperabile
inventiva di soluzioni. A questo Dio infine si affida».
Da tempo terminato il clamore delle discussioni sulla Teologia della
liberazione, sembra essersi spenta l’attenzione per le Chiese latinoamericane.
Tuttavia il loro coraggioso cammino continua nella quotidianità
del servizio ai più poveri e questo clima certamente più sereno
appare favorevole al volgere uno sguardo retrospettivo al
percorso degli ultimi decenni. Stefano Raschietti, missionario saveriano,
presbitero, in Brasile dal 1990 e attualmente direttore del Centro
Culturale Missionario di Brasilia, offre qui una descrizione, quasi
una testimonianza, del cammino della Chiesa brasiliana dalla seconda
alla quinta Conferenza Generale dell’Episcopato latino-americano. I
due eventi segnano pietre miliari di un percorso che congiunge epoche
fra loro molto diverse, il cui esito viene letto da taluni nei termini
di un ripiegamento della forza propulsiva degli anni ’60. La ricostruzione
proposta da p. Raschietti propone una lettura più articolata
di questi decenni, cogliendo tutta la portata innovativa della Conferenza
tenutasi presso il santuario di Aparecída, che, celebrata a contatto
con la fede delle persone semplici, raccoglie l’eredità della complessa
vicenda ecclesiale degli ultimi quarant’anni: «I grandi temi di
Medellín sono diventati i grandi temi di Aparecida: nascono da una
prossimità con le persone semplici, da esperienze pastorali autentiche,
dalla ricchissima fede dei poveri».