L’anno giubilare della misericordia sta per terminare. La rivista lo ha accompagnato cercando di favorire la consapevolezza dell’importanza decisiva che la misericordia di Dio riveste per l’esperienza cristiana e umana in genere. La riflessione che il card. Angelo Scola, arcivescovo di Milano, ha proposto al convegno su «Educati alla misericordia» (Università Cattolica, Milano, 11-12 novembre) va in questa direzione. La misericordia di Dio suscita infatti ciò che più profondamente costituisce l’uomo: la sua libertà. Attraverso lo sguardo di Dio, incontrato negli altri, l’uomo prende coscienza di sé, della propria finitudine, imperfezione e colpa. Ma, insieme, la misericordia desta la domanda a proposito di se stessi, dischiudendo il cammino verso il luogo dove l’esistenza è generata, abbracciata e perdonata. Afferma in conclusione il card. Scola: «Quale sia la misura della misericordia di Dio risulta evidente dalla croce del Signore: in essa comprendiamo che cosa comporti per l’amore trinitario prendere su di sé la nostra reale possibilità di decidere e di agire liberamente, per il bene ma anche per il male. Per questo l’uomo in ogni atto deve tendere a “fare il bene ed evitare il male” in un continuo impegno di conversione e di ripresa».
«Più del maggiore romanzo americano mai scritto», «un manuale di sopravvivenza metafi sica», «un vero e proprio poema sacro»: anche nel XXI secolo il celebre romanzo di Hermann Melville Moby Dick sembra non perdere la sua attualità nell’interpretare la vicenda umana. Jean-Pierre Sonnet, S.J., noto biblista, docente presso la Pontificia Università Gregoriana, in questo saggio offre preziose chiavi di lettura di un testo scritto «convocando la Bibbia»: sono continui i rimandi scritturistici che intessono e strutturano la sua narrazione. I due testi stanno in un rapporto di valorizzazione reciproca: «se le figure scritturali permettono a Melville di scrivere quello che Pavese ha chiamato un “poema sacro”, il genio di Moby Dick si riflette ugualmente sulle Scritture bibliche, ne accentua il potere rivelatore e le mette al riparo da una lettura ideologica o riduttiva». Su questo sfondo, l’impegno del lettore è in qualche modo simile a quello d’Ismaele, il narratore, esposto al male di Achab, ma salvato dall’inusuale scialuppa dell’amico pagano: «Forse – nota sapientemente p. Sonnet – bisogna vedere nel salvagente un simbolo del libro di Melville, agganciato a quello delle Scritture: ci permette di navigare dove Achab è sprofondato nella sua follia. Un libro come “gavitello di salvataggio”?»
Don Massimo Epis, preside della Facoltà teologica di Milano, in questo rapido e preciso saggio riprende il tema della relazione fra fede e cultura. Il testo affronta una questione centrale, la cui articolazione costituisce lo sfondo implicito di ogni scelta pastorale, chiamando in causa sia i pastori sia le comunità cristiane che vogliano rinnovare la duplice fedeltà al vangelo e al proprio tempo. La modulazione del nesso fra fede e cultura rappresenta quindi un elemento essenziale della dinamica missionaria delle comunità ecclesiali, richiede conoscenza del contesto storico di appartenenza, esige vigilanza critica, ma soprattutto un’aperta e generosa disposizione a generare cultura. Siamo infatti chiamati « a essere efficaci in una “pasta” che è già data – la condizione umana – e quindi deve essere onorata nelle sue dinamiche tipiche perché strutturanti. […] Per tutti, l’unico argomento per dire-Dio è l’uomo. Per qualcuno da questa condizione consegue una resa mesta. Per chi si lascia incontrare da Gesù, invece, è il segno di una Grazia che “ama la terra”, perché Dio in Gesù cerca l’uomo da uomo».
La recente celebrazione del giubileo dei carcerati, accompagnata dalle coraggiose e chiare parole di papa Francesco, hanno ridato voce al dibattito sul senso e l’efficacia della pena detentiva. Giorgio Pieri, Responsabile del Servizio carceri della Comunità Giovanni XXIII, forte della sua lunga esperienza riabilitativa in contesti comunitari, propone in modo franco e diretto una serie di interrogativi che investono la reale utilità del sistema detentivo proprio in ordine alla sua presunta efficacia nel tutelare la sicurezza dei cittadini. Molto più validi si sono dimostrati percorsi alternativi che consentono al detenuto reali rapporti umani e percorsi di crescita mediante i quali elaborare il pentimento per il male inferto e il perdono del male ricevuto, premessa per poter disinnescare le molle emotive che riconducono a delinquere. Queste esperienze alternative «possono rappresentare non solo una reale alternativa al carcere per numerosi detenuti, ma anche una possibilità diversa di evangelizzare l’uomo che sbaglia e con esso tutta la società».
Nel corso del 2016 sono state pubblicate due importanti ricerche sociologiche che mettono a tema la religiosità delle nuove generazioni – i cosiddetti millennials – e aiutano a meglio comprendere il complesso e nascosto sentire religioso dei giovani. Don Augusto Bonora, prete milanese e parroco ‘di periferia’, rilegge e mette a confronto i dati offerti dalle due ricerche traendone interessanti provocazioni, essenziali a suo avviso per impostare un’azione pastorale rinnovata verso una generazione che le indagini descrivono come «più delusa che incredula». E, soprattutto, «orfana di interlocutori credibili, capaci di ascolto e di mettersi in gioco, capaci con la loro presenza di aprire orizzonti progettuali, infondere tensioni ideali». Si tratta di una prospettiva che sposterebbe il baricentro della questione dal sentire religioso dei giovani alle loro famiglie, alla Chiesa e, più globalmente, alla società. La ancor diffusa ricerca spirituale e la sincera ammirazione per figure di testimoni autentici implicitamente rappresentano una richiesta che le giovani generazioni rivolgono alla Chiesa affi nché imbocchi con coraggio la strada della riforma, identificata da molti nell’azione e nello stile relazionale di papa Francesco che significativamente gode di una grande popolarità.