Il contributo di p. Adalberto Piovano, monaco benedettino del monastero della SS. Trinità a Dumenza (VA), affronta un tema centrale della vita spirituale: la paziente scoperta dell’autentico volto del Dio cristiano. Si tratta di un cammino non facile, perché esposto al rischio di banalizzare l’originalità della rivelazione biblica o di assecondare le ambigue forze della religiosità naturale. L’autore ripropone e approfondisce con cura la categoria del timore di Dio quale atteggiamento cardine della spiritualità cristiana. Ben diverso dalla paura, esso è in grado di accompagnare il credente nella scoperta della giusta distanza da Dio, permettendo di conciliare la percezione della sua trascendente differenza con la prossimità nell’amore: «Si giunge a Dio con il timore e si giunge a Dio con l’amore. Ma quando l’uomo incontra il volto di Dio e alla luce di esso scopre la propria fragilità, la propria vulnerabilità, allora non può far altro che riconoscere la grandezza di Dio proprio nella sua misericordia. E così il timore rimane custodito dall’amore».
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a una rapida e pervasiva eclisse della funzione sociale del cristianesimo. Il fenomeno suscita numerosi interrogativi, fra i quali, non secondario, quello che investe il significato del celebrare da cristiani in un mondo secolare. Goffredo Boselli, liturgista, monaco della comunità ecumenica di Bose, mostra anzitutto come la particolare condizione dei credenti all’interno di una società secolarizzata costringa anche la liturgia dei cristiani ad andare all’essenza della sua funzione: rendere presente Dio in una società senza Dio. Nella seconda parte lo studio mostra come la liturgia, per divenire oggi realtà evangelizzante, sia chiamata a essere secondo il Vangelo. Per questo deve discernere quegli aspetti, retaggio di un tempo passato, che rappresentano ora un vero ostacolo all’evangelizzazione. Abbandonare un linguaggio ormai desueto e impenetrabile, ma anche alcune immagini di Dio non pienamente evangelizzate, sono passi necessari per dar vita a una liturgia in grado di dire nella società secolarizzata «che il Dio dei cristiani è presente nella storia non attraverso il braccio politico di un regno, non grazie alla protezione dei potenti di questo mondo, a una legislazione civile e ancor meno grazie a un progetto culturale, ma solo e unicamente grazie alla fede della sua comunità che confessa la sua presenza nella storia».
Lo studio di mons. Luca Bressan, pastoralista, vicario episcopale della diocesi di Milano e membro della redazione della Rivista, riflette sul rapporto tra famiglia e Chiesa dentro il quotidiano della vita pastorale. Un quadro complesso, segnato dai profondi cambiamenti culturali che hanno trasformato radicalmente i riferimenti antropologici, generando una frattura fra vita e fede che la pastorale ha cercato di abitare con ogni mezzo, per evitare un indebolimento della vita cristiana e dell’annuncio del Vangelo. L’articolo analizza in profondità questa rottura leggendola da due punti di vista complementari: fotografa anzitutto alcuni dati di fatto emblematici della divaricazione fra magistero e condizioni di autocomprensione della famiglia, in un secondo momento raccoglie gli interrogativi e le dinamiche che questa situazione propone, interpretandoli come il luogo dentro il quale cogliere il futuro che si va delineando per la fede cristiana, per la Chiesa e per la famiglia. L’autore sostiene che all’interno della ricomprensione della Chiesa caldeggiata da papa Francesco vi sia lo spazio entro il quale ripensare all’appartenenza della famiglia alla Chiesa. In questo contesto, «la famiglia diventa il luogo di manifestazione di una diversità di relazione e di esistenza dentro la storia, in grado di mostrare l’assoluta differenza del legame cristiano, e non soltanto a un livello funzionale e/o organizzativo, ma molto più profondamente simbolico e teologico».
Gli organismi consultivi nella Chiesa non sembrano ancora aver trovato un assetto stabile e soddisfacente sia da parte di chi se ne avvale in vista del governo pastorale sia da parte di chi assume generosamente il compito del consigliare. Alphonse Borras, professore all’Università Cattolica di Lovanio e all’Institut Catholique di Parigi, mette qui a tema uno degli aspetti più delicati della partecipazione nella Chiesa. La questione, certo acuita dall’attuale sensibilità democratica, merita di essere ripresa non opponendo semplicemente ‘consultivo’ a ‘deliberativo’. Infatti, ecclesiologicamente parlando, «i consigli ecclesiali non sono puramente consultivi perché lo Spirito è dato al corpo ecclesiale del Cristo in comunione con tutte le Chiese. Canonicamente parlando, sono dei luoghi istituzionali dove si elaborano decisioni che spetta, a chi di diritto, prendere». Tali decisioni comportano per l’autorità l’obbligo dell’ascolto e il difficile esercizio del discernimento, non possedendo essa tutta la verità. Così compreso, il consigliare si pone quale via capace di favorire quella «comunione dinamica, aperta e missionaria» auspicata da papa Francesco in Evangelii Gaudium.
Lo studio di don Massimo Naro, docente di Teologia sistematica presso la Facoltà teologica di Sicilia (Palermo), rilegge il magistero di Evangelii Gaudium alla luce di quella «teologia del popolo» in cui si radica la formazione intellettuale, spirituale e pastorale di papa Francesco. Tipica del contesto ecclesiale da cui egli proviene ed espressione originale della più ampia corrente della ‘teologia della liberazione’, quella teologia fonde in modo inestricabile la duplice valenza – oggettiva e soggettiva – del riferimento al popolo, così che «il popolo stesso viene riscoperto e assunto quale luogo teologico a partire dal quale elaborare la conoscenza di Dio che sta in rapporto con gli uomini». Riferendosi a tale visione della Chiesa, papa Francesco, a cinquant’anni dal Vaticano II, «mostra di voler archiviare una volta per tutte l’ecclesiologia piramidale, preferendole quella che con insistenza egli presenta, nei suoi scritti, come un’ecclesiologia poliedrica».