Pubblichiamo qui la ricca e appassionata riflessione che mons. Franco Giulio Brambilla, vescovo ausiliare di Milano e preside della Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, ha presentato al quinto Meeting delle famiglie, recentemente tenutosi a Bosisio Parini (Lc).
L’intervento svolge il tema generale dell’incontro, Famiglia: l’arte di educare, illuminando le dinamiche fondamentali dell’educazione mediante l’ascolto dei principali passi giovannei che vedono protagonisti la «madre di Gesù» nella sua relazione al Figlio. La sapiente esegesi spirituale di mons. Brambilla individua nel quarto Vangelo alcuni
importanti nodi della questione educativa, poi approfonditi e sciolti con alcune considerazioni pratico-pastorali che toccano il concreto vissuto familiare. Al centro della riflessione è la famiglia nel suo essere grembo che genera a vita nuova, dinamica complessa, che implica una vera ‘drammatica’ la cui logica è riassunta nella ‘via dolorosa’, necessario passaggio alla generazione dell’‘uomo nuovo’.
Presentiamo la relazione che il prof. Gilles Routhier, docente alla Facoltà di teologia dell’Università Laval, Québec, ha proposto alla giornata di studio su Che cosa è successo nel Vaticano II, recentemente tenutasi all’Università Cattolica di Milano. Lo studio affronta la complessa problematica della ricezione ecclesiale del Vaticano II, focalizzando l’attenzione sull’accoglienza del messaggio conciliare inteso come proposta
di un nuovo stile ecclesiale nel rapporto con il mondo, valutando quindi l’incidenza del fattore generazionale sui processi di recezione.
Proprio l’approfondimento di questo secondo e poco esplorato interesse si rivela la pista più feconda di suggestioni. L’Autore invita a considerare come i difetti della pur positiva ricezione della prima generazione postconciliare abbiano determinato un atteggiamento della seconda generazione particolarmente sensibile al profilo identitario della fede cristiana. Questo conflitto generazionale suggerisce un cambiamento di approccio al corpus conciliare: terminata la fase delle ricostruzioni storiche, è forse venuto il momento di favorire un incontro fruttuoso fra il Vaticano II e le giovani generazioni, approfondendo le tematiche della relazione con la cultura, con il mondo e con gli altri,
particolarmente vive nei testi conciliari e, sia pur con diversa sensibilità, cruciali anche per i giovani credenti oggi.
Percezione diffusa è che stiamo vivendo un tempo di profonda transizione: un ‘mondo’ sta per finire, senza che se ne sia ancora delineato uno nuovo. Questa fine comporta la crisi di tutte le istituzioni, con le loro norme, conoscenze e valori. L’articolo di Luca Diotallevi (docente di Sociologia all’Università di Roma Tre) mette a tema la domanda: come abitare questa crisi? La prospettiva secondo cui la riflessione si svolge è quella propriamente sociologica, cha aiuta a comprendere le dinamiche e i meccanismi in atto. In particolare, l’Autore si sofferma sul prete come ‘professionista’, intendendo questo termine nel suo significato tecnico di persona che sviluppa e attua una competenza autorevole e riconosciuta all’interno di un’istituzione. In quest’epoca di crisi la professione del prete, che in Italia mostra ancora una singolare tenuta, è tuttavia aperta a due derive degenerative: la trasformazione in imprenditore (il prete ‘carismatico’ che cerca di attrarre clienti, anche a costo di ‘svendere la merce’) o in impiegato che si limita ad amministrare la domanda religiosa. Il cedimento rispetto a tali derive espone al
rischio di un esito negativo della crisi per l’istituzione Chiesa. Per contrastare queste tendenze, Diotallevi in conclusione propone cinque luoghi di rinnovamento dei preti come «professionisti di una religione di Chiesa»: il sapere teologico, lo spessore umano, la relazione con il presbiterio, l’esercizio corretto dell’autorità e l’assenza di clericalismo.
Data la sua lunghezza, lo studio viene pubblicato in due riprese.
Inserita nell’elenco dei cosiddetti ‘vizi capitali’ già nel V secolo, l’invidia è divenuta oggi un tratto della personalità socialmente accettato; anzi, promossa in particolare dai meccanismi della pubblicità, viene presentata quasi fosse una qualità. Eppure, come già Dante aveva intuito collocando gli invidiosi nel purgatorio, chi è preda dell’invidia
ne è anzitutto vittima: essa infatti amareggia in profondità la vita di chi la prova. Si comprende così come una riflessione sull’invidia abbia un profondo significato morale e spirituale, che travalica il profilo individuale della vita virtuosa e investe i tratti pubblici del costume diffuso. Luciano Manicardi, monaco della comunità ecumenica di Bose, affronta il tema interrogando anzitutto le testimonianze depositate in opere letterarie, artistiche, filosofiche, psicanalitiche che in epoche antiche o recenti hanno scrutato questo luogo doloroso dell’esperienza umana. Per questa via siamo condotti lungo un affascinante viaggio che permette di cogliere il tema da prospettive e sensibilità diverse e di proporre numerose suggestioni utili alla comprensione dell’animo umano. Pubblichiamo qui la prima parte del saggio, centrata sulla dimensione sociale dell’invidia. La seconda parte verrà ospitata sul numero di maggio.*
L’esperienza di Matteo Ricci resta una pietra miliare nella storia delle relazioni tra Cina e cattolicesimo europeo. Il suo tratto più geniale fu credere in una comunicazione tra questi due universi, di fatto così diversi tra loro. La sua abilità consistette nel trovare il modo concreto per realizzarla. Il metodo del suo approccio missionario si rivela d’attualità anche nella nostra epoca. A quattrocento anni dalla scomparsa (Pechino, 11 maggio 1610) ci sembra significativo ricordare i tratti salienti della sua azione attraverso l’articolo di Mario Biffi, che mette in rilievo gli aspetti qualificanti della missione di Matteo Ricci in Cina, contestualizzandoli nell’azione della Chiesa secentesca. L’autore dà risalto anche alle grandi difficoltà dell’inculturazione del cristianesimo in Cina incontrate da Ricci, soprattutto in ambito cristologico e liturgico. Questo, tuttavia, non oscura minimamente il valore della sua opera che «si rivela soprattutto nel suo carattere
cristiano. Egli fu realmente un uomo di comunione: tra mondi, culture e uomini. Tale comunione nacque e crebbe nella sua esperienza del Vangelo […], fu resa possibile dall’interesse evangelico per l’umanità in tutte le sue forme».