Il saggio di don Luca Bressan (docente di Teologia pastorale alla Facoltà
teologica di Milano e membro della redazione della Rivista), dopo aver illustrato sul numero precedente della Rivista i principali caratteri della ‘svolta digitale’ in atto nella nostra cultura, affronta qui il cuore della problematica pedagogica. L’autore afferma che l’abitazione dello spazio digitale non è senza conseguenze per il modo di
vivere la fede cristiana e di immaginare l’identità presbiterale. La sfida
riguarda quindi i modi di stare dentro questa inedita cultura, che è come un nuovo e inevitabile paesaggio della vita umana. La domanda che ne emerge verte sui processi di reinterpretazione e i percorsi di discernimento per accompagnare oggi un giovane nella
costruzione della sua identità presbiterale. Il focus della riflessione diviene quindi eminentemente educativo e antropologico, provoca in particolare al ripensamento dei contesti formativi, i seminari, e dei percorsi pedagogici lì proposti: la loro efficacia dipende dall’attitudine a rideclinare quelle strutture dell’umano tendenzialmente isterilite
dai meccanismi della cultura digitale.
Lo scorso 11 marzo si è tenuta presso l’Università Cattolica di Milano
un’importante giornata di studio sul Vaticano II in occasione della pubblicazione del volume di John W. O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II ( Vita e Pensiero, Milano 2010). Pubblichiamo qui la relazione d’apertura di padre O’Malley, S.J., incentrata sulla problematica dell’interpretazione del Concilio, considerata dal punto di vista del
rapporto tra continuità e novità nella Tradizione della Chiesa.
Il saggio offre una rapida e precisa analisi della semantica del cambiamento
nei testi conciliari, mostrando come le novità del Vaticano II abbiano attinto alle fonti originarie della Tradizione: la Bibbia e i Padri della Chiesa. In questo senso non è possibile ravvisare nel Concilio una rottura della Tradizione. L’Autore identifica la più importante caratteristica distintiva del Vaticano II nel suo ‘stile’, cioè nel nuovo modo
di porsi della Chiesa al proprio interno e in rapporto con il ‘mondo’, elemento fondamentale per una corretta ermeneutica del Concilio, ancorata ai testi e a quanto effettivamente successo nel Vaticano II. In considerazione dell’importanza del tema trattato, pubblicheremo sui prossimi numeri della Rivista anche le altre relazioni
della giornata di studio.
Nell’imminenza della Pasqua pensiamo di fare cosa gradita proponendo
questa bella meditazione sul perché della morte in croce di Gesù.
Ne è autore Sabino Chialà, monaco della comunità ecumenica di Bose e studioso di patristica. L’articolo propone un lucido itinerario di ricerca delle ‘ragioni’ della croce nella letteratura cristiana antica rileggendo alcune categorie teologiche, più o meno pertinenti,
che nella storia sono state utilizzate per comprendere il senso della morte di Gesù. Si è così aiutati nell’intelligenza spirituale della Pasqua, entrando in quella conoscenza del mistero che è necessaria all’amore.
La croce infatti è «capace di operare un cambiamento in colui che la contempla in verità: essa trascina in quell’amore che rivela e che fa sperimentare. […] Percepire la logica della croce è ciò che pian piano, giorno dopo giorno, ci rende cristiani».
Pubblichiamo qui un suggestivo saggio di don Giuliano Zanchi, Direttore
generale del Museo Diocesano di Bergamo. Si tratta di un testo pensato in occasione di un dibattito tenuto al Teatro dell’Arsenale di Venezia sul tema dell’attualità della bellezza. Don Zanchi propone le ragioni di una considerazione ‘alta’ della bellezza, che ne
superi i superficiali significati legati alla gradevolezza e alla decorazione.
Essa infatti, come ben conosce la tradizione cristiana, ha la dignità di via ‘sensibile’ alla percezione del fondamento secondo le forme dell’armonia e dello splendore. È quindi uno dei molti sentieri lungo i quali si decide il destino dell’uomo, tanto che, «se non abita
gli spazi del fondamento, la bellezza si riduce a un vano ornamento che, una volta grattato via, mostra di non aver avvolto che il nulla».
Il tema, fortemente percepito dalla sensibilità postmoderna, ha un
indubbio rilievo pastorale, poiché conduce all’esperienza religiosa
dello «stare nel compimento […], del percepire anche per un solo
istante la grazia di qualcosa che ci appare giusto così come è».
Pubblichiamo qui il racconto di una singolare esperienza di accoglienza
realizzata da qualche anno in una parrocchia milanese.
L’Autore (diacono della diocesi ambrosiana) la illustra nella forma semplice
della narrazione. Sono sufficienti poche righe per comunicare la potenza simbolica e l’ispirazione evangelica di un gesto d’apertura che contribuisce, più eloquente di mille discorsi sul futuro della parrocchia, a illustrare una modalità profetica di presenza del cristianesimo sul territorio. Non si tratta certo di un’esperienza facilmente
duplicabile; testimonia tuttavia la possibilità di mutare il volto parrocchiale rendendolo concretamente più trasparente all’evangelo. La comunità dei credenti diventa così una casa accogliente davvero per tutti, secondo l’ammonimento di Gesù: «I poveri
li avrete sempre con voi». Uno stigma della Chiesa, quando essa si rende disponibile alla radicale accoglienza dell’umano, in particolare quando è messo alla prova.Anche, e soprattutto, in queste forme, il Regno viene tra noi.