«Viviamo in una stagione che vede l’umanesimo occidentale a rischio. E di tale umanesimo ingrediente assolutamente centrale è stata la virtù». La riflessione di mons. Giuseppe Angelini (teologo morale, già preside della Facoltà teologica di Milano) prende avvio da questa constatazione che assume nell’odierna situazione del cattolicesimo e della vita civile una particolare rilevanza, perché la mentalità e il costume corrente sembrano ignorare il pensiero e la pratica della virtù. Eppure, le virtù sono l’habitus della vita buona, i modi attraverso cui la coscienza morale assume la sua forma concreta e quotidiana. Se nella società postmorale il costume diffuso non supporta più queste forme di vita buona, occorre ripensarne e riproporne il significato nell’ottica della fede cristiana e in rapporto alle mutate condizioni. L’articolo in questa prima parte procede a una ricognizione della questione e a una sua sintetica ripresa nella prospettiva della tradizione neotestamentaria. La seconda parte del contributo sarà dedicata a una teologia della virtù ripensata in raccordo con il tema della coscienza credente.
Il trauma del primo lockdown, nella primavera del 2020, è stato segnato dai drammatici interrogativi sui risvolti culturali e sociali della pandemia, accompagnati dal desiderio pressante di trarne un insegnamento affinché l’umanità ne uscisse migliore, istruita dalle molte ‘lezioni’ impartite dall’emergenza pandemica. In questa seconda primavera di malattia tali interrogativi sembrano ormai abbandonati, accantonati a favore dall’enfasi ‘tecnica’ posta sulla via d’uscita vaccinale. Ivo Lizzola, professore di Pedagogia sociale e di Pedagogia della marginalità e della devianza presso ’Università degli Studi di Bergamo, ritorna con coraggio su quei temi di fondo, riprendendoli alla luce dell’insegnamento di Francesco, soprattutto dell’enciclica Fratelli tutti che, come già la Laudato si’, «offre una grande indicazione di movimento: indica una dinamica, in atto e possibile: di vita, di relazioni, d’organizzazione della convivenza; una dinamica culturale e spirituale. Una forma di vita dal sapore del Vangelo nella quale possono trovare alimento, appoggio e pratica una nuova politica, una democrazia non disincarnata». Il testo, caratterizzato da stile evocativo e linguaggio denso di immagini, riprende i temi centrali di un’antropologia che chiede di essere nuovamente pensata sia nella reinterpretazione di soggetti che sappiano integrare le molteplici figure della vulnerabilità sia nell’immaginare nuove figure del legame sociale; proprio in questo ambito – sottolinea l’autore – le comunità cristiane potranno avere un ruolo profetico, proponendosi di interpretare le «capacità di fedeltà, di povertà, di generosità, iniziando, camminando», sapendo ««“fare posto” a chi fatica ad averlo, a stare nelle dinamiche del vivere; fare spazio a chi porta fragilità, non per “risolverle” ma per fare entrare nel gioco di responsabilità, di presenze reciproche, di costruzione di luoghi abitabili».
Viviamo in una situazione di continuo e veloce cambiamento socioculturale che interroga profondamente i pastori più attenti, consapevoli che le prassi consolidate hanno ben poca utilità nell’orientare un proficuo rapporto con la realtà attuale. Mons. Mariano Crociata, vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno, affronta apertamente le principali problematiche poste da queste dinamiche, cercandone una chiave interpretativa ma proponendo soprattutto un atteggiamento positivo di fronte a tutto ciò che si presenta oggi come nuovo e inedito e sollecita quotidianamente la pastorale. Ascolto, sguardo aperto sulla realtà, capacità creativa di entrare in relazione con tutti rappresentano le abilità di fondo capaci di far vibrare i cuori dei pastori che sanno accogliere il cambiamento: «Deve cambiare dunque il nostro modo di guardare, l’ordine e la priorità delle nostre preoccupazioni. Una fede rinnovata e fresca è ciò che precisamente ci serve».
L’interessante articolo di Fabio Quartieri, docente di Teologia sistematica presso l’ISSR ss. Vitale e Agricola di Bologna, celebra in modo originale l’importante anniversario dantesco del 2021. Lo fa documentando un episodio non molto noto della vita di Romano Guardini, uno degli intellettuali cattolici più influenti del XX secolo, docente di Katholische Weltanschauung all’università di Berlino durante gli anni cupi della Germania hitleriana. A quel tempo il suo semplice parlare di Dante e, tramite lui, dell’antropologia cattolica, divenne tanto eversivo da essere ritenuto una minaccia per la ‘visione del mondo’ nazista. Proporre Dante fu per Guardini un modo di manifestare il proprio dissenso verso l’ideologia del Terzo Reich, cercando nel contempo di instillare nelle giovani generazioni di studenti degli anticorpi culturali che ne proteggessero le coscienze grazie a un’azione pedagogica che può essere considerata paradigmatica per ogni tempo: «Costruire ricoveri per intere generazioni: questo ha fatto Guardini nel suo tempo e questa è la missione che sempre attende – di fronte a nuovi e vari deserti dilaganti – ogni educatore cristiano».
La pandemia ha segnato duramente la vita quotidiana dei giovani, costretti a rinunciare a molte esperienze che appartengono fisiologicamente alla fase più vitale e creativa dell’esistenza. L’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo si è interrogato sugli effetti che questa emergenza è destinata a produrre sul loro atteggiamento nei confronti della vita, del futuro, della società, e in particolare sulle ricadute nel loro rapporto con la fede e con la Chiesa. Queste domande sono all’origine dell’intervento di don Stefano Didonè, docente di Teologia fondamentale presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Treviso-Vittorio Veneto, che con Paola Bignardi ha curato il volume dedicato agli esiti dell’indagine. Il suo intervento approfondisce l’inedito profilo dell’atteggiamento ‘post-secolare’ delle nuove generazioni di fronte alle tematiche religiose. Segnato da sensibilità sociale, autenticità e apertura a una ricerca senza pregiudizi, esso presenta tratti che sfidano la pastorale a rimodularsi e ad affrontare con coraggio il «mare aperto» dell’universo giovanile: «Imparare a reinventarsi appare una vera e propria urgenza pastorale per la Chiesa di oggi, chiamata alla trasformazione missionaria e a un modo di crescere per “attrazione”. […] Senza schemi, né paternalismi, alla ricerca di un incontro reso possibile solo dalla comune capacità di stupirsi ancora una volta nient’altro che per il Vangelo».