Il diaconato permanente è stato reintrodotto nella Chiesa da diversi decenni, un tempo congruo per un primo bilancio pastorale. Alphonse Borras (vicario generale della diocesi di Liegi, professore all’Università Cattolica di Lovanio e all’Institut Catholique di Parigi) sviluppa in questo articolo le principali acquisizioni che la reintroduzione del diaconato ha determinato sul piano dottrinale ed ecclesiale. Su tale base, l’autore prende in esame alcuni sentieri di approfondimento per l’esercizio del ministero diaconale e il suo profilarsi in rapporto agli altri ministeri e servizi nella vita delle nostre comunità. La rilettura dell’esperienza di questi anni mostra l’importanza di tre punti di attenzione: il potere di servire, il rapporto dei diaconi con le donne, la legittimità del ministero diaconale; problematiche che richiedono un’adeguata vigilanza affinché «il ministero sia veramente a beneficio della comunità e della sua missione: si è chiamati a servire, e non a servirsi. Ciò richiede un discernimento in quanto si tratta di abilitare qualcuno a servire i propri fratelli e le proprie sorelle».
Per parlare di immigrati, bisogna anzitutto definire chi siano gli esseri umani a cui attribuiamo questa etichetta. L’articolo di Maurizio Ambrosini (docente di Sociologia dei processi economici presso l’Università degli Studi di Milano) si propone in prima battuta di precisare questo concetto, meno evidente e scontato di quanto potrebbe sembrare, combinando nazionalità straniera e povertà almeno presunta. Dopo aver offerto un quadro di insieme sull’immigrazione in Italia, allo scopo di collocare la questione dei profughi in una prospettiva adeguata, Ambrosini (esperto tra i più autorevoli in materia) si sofferma sul rapporto tra migrazioni e povertà, arrivando a fornire qualche spunto informativo per rispondere a una domanda cruciale: siamo davvero sotto una pressione migratoria sempre più massiccia e secondo alcuni insostenibile? Siamo insomma sottoposti a un’invasione? Questo contributo, chiaro e documentato, risulta prezioso per farsi un’idea fondata del fenomeno, necessaria per affrontarne adeguatamente problemi e criticità. Senza una base informativa solida, l’opinione pubblica, anche ecclesiale, è esposta al rischio di essere manipolata da chi ha un mero interesse politico a evocare paura e ostilità nei confronti degli immigrati.
L’articolo di don Giuliano Zanchi (segretario generale della Fondazione Bernareggi di Bergamo e redattore della Rivista) illustra la coraggiosa proposta di un Liber pastoralis esplicitamente pensato quale «ideale vademecum per i pastori e per i loro collaboratori, su cui confrontarsi e su cui discernere: per chiedersi cosa c’è da potare, che altro c’è da valorizzare, che altro ancora da creare di nuovo» nella Chiesa italiana oggi. L’autore del libro – mons. Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara e vicepresidente della Cei – muove dalla percezione di un malessere diffuso nella vita delle nostre comunità, quel senso di accidia nei confronti del compito pastorale, che finisce col mettere «il pilota automatico dell’inerzia operativa». Per riaccendere la passione pastorale occorrono immaginazione, pensiero, discernimento e visione prospettica. Sono le frequenze su cui è sintonizzata la proposta del vescovo di Novara, che, dopo aver delineato la cornice generale in cui situare l’esercizio del ministero, propone una sapiente rilettura dei concreti ambiti in cui si sviluppa l’azione pastorale.
L’esperienza della cura significa ‘prendersi a cuore’, ‘preoccuparsi’, ‘avere premura’, ‘dedicarsi a qualcosa’. È un movimento della vita umana che riguarda se stessi e gli altri. Nonostante si trovi all’origine dell’esistenza di tutti e sia dimensione essenziale dell’agire, manca su di essa un sapere adeguatamente meditato. Accade infatti per la cura quanto avviene spesso per le esperienze fondamentali, cioè che ne sfugga il significato originario. Luigina Mortari, professore ordinario all’Università di Verona dove dirige il Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia, propone qui una riflessione sul senso e sulle principali fi gure della cura a partire dalle domande più semplici: che cos’è la cura? Perché è dimensione umana essenziale? L’articolo mostra come la cura sia esperienza dai molti aspetti: essa infatti non risponde solo alla necessità umana di continuare a vivere, ma è anche l’arte di stare al mondo con un senso e di occuparsi delle ferite del corpo e dell’anima. Qualità «costitutiva della condizione umana, il lavoro di cura non può non accompagnare la vita intera riempiendo ogni attimo del tempo».
Dopo aver delineato gli atteggiamenti e le scelte di fondo che stanno alla base dell’agire pedagogico (1/2017, pp. 19-26), in questa seconda parte del suo saggio don Donato Pavone (psicologo, docente di Psicologia e Antropologia filosofica presso lo Studio Teologico e l’Istituto Superiore di Scienze religiose di Treviso e Vittorio Veneto) analizza i tre principali ambiti nei quali gli educatori in genere e gli insegnanti in specie sono chiamati a operare: il pensiero, gli affetti e il vissuto spazio-temporale. Si tratta di linee-guida che i lettori potranno apprezzare per i loro riferimenti al concreto e per la capacità di illuminare con sapienza aspetti del vissuto giovanile spesso non adeguatamente considerati. Tuttavia, ricorda l’autore, sempre decisivo è lo stile testimoniale dell’educatore: «La qualità delle interazioni che realizza, il grado di maturità affettiva che mette in campo, il modo di gestire ed esprimere il proprio sentire, i tratti della grammatica e semantica del corpo che adotta sono le vie maestre attraverso le quali si educa a precise forme di presenza e di vita».
Il recente Silence di Martin Scorsese, un riconosciuto maestro del cinema contemporaneo, è un film di rara caratterizzazione spirituale e religiosa, che affronta temi di grande complessità teologica quali la fede e l’inculturazione, l’apostasia e il martirio. L’articolo di Alessandro Zaccuri, giornalista di «Avvenire» e scrittore, introduce alla comprensione di quest’opera ricchissima e raffinata mettendone in risalto l’originalità sullo sfondo del romanzo Silenzio di Shusaku Endo da cui è tratta la vicenda rappresentata e, soprattutto, delineando con grande precisione la dialettica dei personaggi e delle ‘teologie’. La loro messa in scena dipana un complesso gioco di rimandi e silenzi che invitano il lettore a prendere posizione senza poter godere del conforto di un’evidenza definitiva. Si tratta di una caratteristica tipica della narrazione cinematografica, che «non pretende di esprimere una posizione magisteriale o dogmatica. Strumento di interrogazione, si lascia interrogare da un episodio che già nella sua manifestazione storica non è privo di zone d’ombra».