Come è noto, ai testi del Vaticano II viene assegnato il merito di aver ridato dignità teologica alla figura episcopale, dopo una lunga eclissi in epoca moderna. Tuttavia, nota mons. Giacomo Canobbio, docente di Teologia dogmatica presso la Facoltà teologica di Milano, il Concilio non è riuscito a delineare un modello chiaro e praticabile di vescovo, almeno non nella misura in cui Carlo Borromeo costituì la figura paradigmatica di vescovo nell’epoca moderna. Tale considerazione porta a ipotizzare che uno dei motivi sia ascrivibile alla sovradeterminazione dei compiti e delle competenze del vescovo, quindi al «rischio che la teologia dell’episcopato del Vaticano II e del periodo successivo porta con sé: far diventare il vescovo sempre o ovunque allo stesso modo rappresentante di Cristo qualsiasi azione compia nell’esercizio dei tria munera, dimenticando che il vescovo non può mai essere pensato solo sul versante di Cristo, ma dovrebbe essere pensato nella e con la sua Chiesa». Sotto questo profilo, l’autore prende le distanze dalla figura del vescovo leader carismatico, dal quale si attende la soluzione a ogni problema. Piuttosto, all’interno di una visione sinodale della Chiesa è raccomandata la figura di un pastore capace di sviluppare nella comunità affi datagli lo spirito di collaborazione e corresponsabilità.
In questi ultimi anni si è consolidata nella mentalità comune una serie di parole d’ordine che, dietro il loro apparente buon senso, celano contraddizioni che la coscienza credente non può fare a meno di avvertire e criticare. Si pensi a titolo d’esempio all’enfatizzazione di un’idea di tolleranza che spesso scivola nell’indifferenza, o all’insistenza di una politica centrata sull’imperativo della sicurezza che di fatto tende a misconoscere ogni considerazione etica, o ancora alla semplicistica associazione di religione e irrazionalità. Don Maurizio Chiodi, docente di Teologia morale presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, affronta in questo lucido saggio la genesi culturale di tali problematiche ricostruendo lo sviluppo dell’idea di tolleranza in Occidente, per poi riflettere sui corretti rapporti fra etica, religioni e diritto e, più radicalmente, sulla possibilità di un pensiero che sappia contemperare l’attuale pluralità etico-culturale col grande interrogativo della verità.
Un numero crescente di diocesi ha disposto nuove forme di organizzazione del tessuto parrocchiale, proponendo diverse modalità di cooperazione fra le comunità e i loro preti. Sarebbe ingenuo minimizzare le ripercussioni che questi cambiamenti determinano sull’identità del presbitero, oggi meno garantita dal ministero di quanto non lo fosse una volta, quando egli si riferiva a un’unica comunità parrocchiale. In questo studio don Donato Pavone, psicologo, insegnante di Psicologia e Antropologia filosofica presso lo Studio Teologico e l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Treviso e Vittorio Veneto, pone l’attenzione sulle problematiche aperte dai nuovi scenari pastorali, convinto che queste rappresentino una vera urgenza ecclesiale. Infatti, «il singolo sacerdote non può essere lasciato solo nel compito titanico di ripensarsi profondamente, circa l’essere e l’agire, nell’attuale sua inedita condizione esistenziale e ministeriale». In questa prospettiva l’autore propone un’articolata riflessione sui benefici che dinamiche di comunione fra presbiteri potrebbero portare sia nel sostegno personale sia nei processi di discernimento delle nuove forme dell’agire pastorale. Il ‘noi presbiterale’, specie se realizzato in forme di convivenza, non andrebbe idealizzato «come se fosse la panacea di tutte le difficoltà della vita e del ministero del prete»; è realtà per sua natura a servizio della Chiesa, chiamata a realizzare sui territori «buone pratiche di comunione e di guida pastorale plurale, che rappresentano non soltanto una chiara opportunità di testimonianza evangelica, ma anche un significativo, seppur implicito, annuncio vocazionale».
Probabilmente, prima di Francesco, nessun papa recente aveva insistito tanto sulla centralità del battesimo nella vita cristiana. Se non si può misconoscere un certo interesse per questo sacramento nel magistero pontificio postconciliare, soprattutto in relazione alla vocazione specifica dei laici – come dimostra l’esortazione apostolica Christifideles laici di Giovanni Paolo II –, è altrettanto incontestabile che il battesimo sia finora rimasto in posizione di relativa marginalità, quasi ‘schiacciato’ dall’attenzione prevalente riservata all’eucaristia, come pure – per ragioni diverse spesso di natura contingente – alla penitenza, all’ordine sacro e al matrimonio. In questo documentato studio, don Pasquale Bua, docente di Teologia dogmatica presso l’Istituto teologico Leoniano di Anagni, mostra come nel pensiero teologico di Francesco l’interesse per il battesimo fa tutt’uno con la dottrina sulla Chiesa, consentendogli di tratteggiare con originalità e audacia una vera e propria ecclesiologia battesimale, che si può considerare un importante complemento all’ecclesiologia eucaristica dei suoi predecessori.
Il film Andrei Rublev del regista russo Andrei Tarkowskij è unanimemente riconosciuto quale pietra miliare della storia del cinema. In occasione dei cinquanta anni della sua realizzazione Jean-Pierre Sonnet, S.J., noto biblista, docente presso la Pontificia Università Gregoriana, ha scritto un acuto saggio sull’opera del grande autore russo. Lo scritto diventa occasione per una più ampia riflessione sulle condizioni spirituali della creazione artistica e sul suo rapporto con la condizione storica nella quale prende forma. L’avvincente ripresa di alcuni episodi del film e della tormentata vicenda della sua sceneggiatura porta a percepire il complesso processo della creazione artistica, che, secondo le parole di Tarkovskij, « è il riflesso, nello specchio, del gesto del Creatore. Noi artisti non facciamo che ripetere, che imitare quel gesto. L’arte è uno dei momenti preziosi nei quali somigliamo al Creatore».