Il contributo di mons. Roberto Repole, arcivescovo di Torino, che ha introdotto la giornata di formazione tenuta a Milano il 6 febbraio scorso, traccia uno sguardo generale sulle condizioni in cui oggi si trova ad agire il ministero del prete, nel più ampio contesto del ministero della Chiesa. La riflessione cerca anzitutto di riconoscere e nominare motivi e sintomi salienti dello spaesamento che accompagna la vita di molti preti per poi offrire quattro sintetiche «tracce», poste a prefigurare nuovi possibili orientamenti: prendersi «cura della fede del prete»; «limitazione del ministero e dunque del potere e della responsabilità del prete alla garanzia del fatto che la comunità cristiana rimanga ancorata alla radice apostolica»; rivisitazione delle «potenzialità che riveste il ministero diaconale»; «potenziamento autentico della realtà del presbiterio presieduto dal vescovo. […] tracce di un sentiero percorribile, nell’auspicio che esso venga davvero dal Vangelo e conduca al Vangelo».
«Pregare con i Salmi come invocazione del Dio vivente è la ricerca del fondamento che tutto sostiene e abbraccia»: con queste parole l’intervento di madre Maria Ignazia Angelini OSB, monaca benedettina di Viboldone (Milano), si pone in dialogo col tema dello spaesamento rinnovando e rinvigorendo le ragioni della preghiera nella vita cristiana, di quella del prete in particolare. «Ritengo – afferma l’autrice – che la riscoperta del Salterio per il prete rappresenti una priorità non solo e non anzitutto in vista della pastorale, ma in ordine alla maturazione della sua stessa forma spirituale». Il ricco e appassionato intervento invita alla preghiera dei salmi quale contagiosa immersione nelle passioni di Dio e culmina nella lettura del Sal 89, singolarmente corrispondente all’esperienza del prete, che mostra con bella evidenza «la dinamica paradossale, critica, della preghiera cristiana maturata dalle “radici” dei salmi: dinamica che dice “l’umano davanti a Dio”, mentre dice il senso della elezione di Dio come chiamata a condividere le stesse “passioni” di lui – la sua fedeltà creatrice, il suo regno che viene sorprendentemente, la sua kenosi».
L’intervento di don Manuel Belli, docente di Teologia dei Sacramenti presso la Scuola di teologia del Seminario di Bergamo, propone un secondo ingresso nel tema della preghiera, questa volta nella sua dimensione comunitaria e liturgica. La riflessione affronta con grande realismo e attenzione fenomenologica il tema celebrativo ricordando che nel rito «ciò che è realmente detto è ciò che è fatto» e che il corpo, anche quello del celebrante, non mente. L’invito al superamento di una visione intellettualista e disincarnata della celebrazione si accompagna alla sottolineatura dell’importanza della concreta azione liturgica e dell’attenzione al corpo, perché essa si regge su azioni che hanno a che fare con esso: «Non è facile dire se le nostre liturgie incorporee sono cause o conseguenze di pastorali senza corpo. Ma il nesso è evidente».
L’intervento conclusivo della giornata affronta il tema dell’autorità, inteso quale istanza unificante che, soprattutto in un tempo di spaesamento, sarebbe chiamata a orientare il ministero. Mons. Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola e vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana, tratteggia il profilo di un’evangelica autorità non autoritaria che sappia porsi al servizio e indicare la via. Il suo intervento procede con un rapido e puntuale excursus storico, per poi offrire degli spunti di sviluppo del tema in chiave post-conciliare. Questi convergono nell’identificare, tra le opportunità aperte dalla crisi attuale e dallo spaesamento che si registra tra i cristiani, «la possibilità di ritornare alla relazione familiare, senza farne il nido, ma facendone piuttosto la leva per poter essere sale, lievito, luce. Il recupero della dimensione domestica dell’autorità ecclesiale implica il recupero di una basilare fraternità, dentro la quale poi si esercitino anche ruoli paterni e materni». La valorizzazione di una forma ‘domestica’ dell’autorità può oggi venire in aiuto nel recuperare quella sua connotazione diaconale e discepolare che il cammino sinodale auspica come atteggiamento proprio della chiesa, per tornare a percorrere evangelicamente le strade del mondo.
Torniamo a meditare su alcune evidenze lasciate sul campo dal lungo periodo di emergenza pandemica che ci stiamo lasciando alle spalle. Le domande che esse animano vanno considerate tenendo sullo sfondo l’attuale affermazione di una cultura postcristiana. Don Emanuele Campagnoli, docente di Filosofia presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Crema-Cremona-Lodi, mette a fuoco tre sfide pressanti, cui lo straniante passaggio del lockdown ha conferito una particolare evidenza, e che si ripropongono come questioni da affrontare il più coraggiosamente possibile, per non ripetere l’errore di nascondere la polvere dei problemi sotto il tappeto della consuetudine. Un cristianesimo di ‘libera adesione’, una vita ecclesiale vissuta come comunione, una Chiesa che sa discernere alla luce dello Spirito: questi gli obiettivi che motivano una ‘ripresa’ veramente possibile, e nel segno di una necessaria discontinuità.
Pubblichiamo, nella rubrica Terzapagina, l’interessante contributo con cui Luciano Manicardi, monaco della comunità ecumenica di Bose, rilegge il noto romanzo di Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, a vent’anni dalla sua pubblicazione. Quel testo trova triste risonanza e nuova attualità nella dura repressione delle istanze di autodeterminazione delle donne tutt’ora in corso in Iran. Come è noto, Nafisi si rifà alla rilettura del discusso Lolita di Vladimir Nabokov, romanzo complesso e controverso, che ebbe una storia editoriale travagliata per il suo contenuto scabroso. Riletto nella condizione di oppressione del regime di Khomeini, quel romanzo assumeva però il significato di una universale protesta antitotalitaria: «La verità disperata che si cela dietro la storia di Lolita non è lo stupro di una ragazzina da parte di un vecchio sporcaccione, ma la confisca della vita di un individuo da parte di un altro». L’esperienza narrata da Nafisi diviene così una riflessione sulla potenza della letteratura, della sua valenza politica e del suo valore di scuola di umanità. «Leggere o rileggere oggi Leggere Lolita a Teheran è scuola di libertà, perché la parola letteraria può illuminare la coscienza, suscitare indignazione, ispirare azioni, accendere spiragli di luce, creare comunità, scavare spazi di resistenza e mondi alternativi. Leggerlo o rileggerlo, inoltre, perché la perversa logica dell’abuso e della confisca della vita di una persona da parte di un altro si annida ovunque e necessita di strumenti per discernerla, denunciarla e combatterla».