La prima nota della vera carità è la trasparenza. Vangelo, infatti, è la carità di Dio, non la nostra. Il nostro amore è vangelo a patto che lasci trasparire l’amore di Dio. Perché gli uomini – lo sappiano o no – cercano l’amore di Dio, non semplicemente il nostro. Il nostro è troppo piccolo, veramente poca cosa nei confronti dell’amore di Dio che si è manifestato sulla croce di Gesù. Anche il nostro amore verso i fratelli può però diventare grande – vangelo, appunto – ma solo se ci si mette da parte per attirare l’attenzione su Dio, non su noi stessi. È questa la trasparenza che trasforma la carità – la nostra carità – in vangelo. La semplice solidarietà è nobilissima, ma non è ancora annuncio del vangelo, non è ancora missione. Lo diventa quando si fa segno della carità.
Nel novembre 2014 si è tenuta ad Assisi la 67ª assemblea generale dei vescovi italiani che ha dato inizio a un percorso di riflessione e confronto collegiale sul tema della vita e della formazione permanente dei presbiteri. In quel contesto la questione della povertà del clero si è imposta come centrale per l’identità e la missione del presbitero. Il tema riguarda da vicino la Chiesa dei poveri, contenuto principale di quella ‘Chiesa in uscita’ che papa Francesco non si stanca di sostenere e rilanciare. Su tale sfondo la Rivista propone in questo fascicolo tre contributi che illuminano la questione da differenti punti di vista, rispettivamente spirituale, teologico-pratico e biblico. L’ampia riflessione di Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, offre i riferimenti essenziali per collocare nella sua corretta dimensione cristologica un tema troppo a lungo ridotto alla sola dimensione etica: la povertà è «la forma incarnationis, la forma ostensionis Christi, la forma in cui Gesù, il Figlio di Dio, ci ha salvati».
Mons. Luca Bressan, vicario episcopale della diocesi di Milano e membro della redazione della Rivista, presenta un’articolata riflessione sul rapporto fra condizione presbiterale e denaro, che, prendendo le mosse dal profilo ideale proposto dai documenti della Chiesa italiana in occasione della riforma del sostentamento del clero, mostra la problematicità di alcuni suoi effetti concreti nella vita dei preti. La disamina dei molti livelli di lettura a cui il tema economico si presta e dei principali criteri nell’uso dei beni materiali conduce al cuore della questione: «Il rapporto tra i preti e il denaro non può non passare dalla loro fede, dal modo con cui vivono nel quotidiano la vocazione a cui hanno consacrato la loro vita, la chiamata di Dio e della Chiesa a cui hanno risposto», risultando così determinante nella testimonianza di una fede credibile ed evangelica.
Donatella Scaiola, docente di Esegesi biblica presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma, propone in queste pagine una visione sintetica del messaggio biblico sul denaro, delineando alcune coordinate di fondo per inquadrare il tema secondo i fondamenti della fede cristiana. Essa non ammette altri ‘signori’ accanto all’unico Dio: Gesù, associando il denaro a Mammona, intende descriverlo come un potere che cerca di essere divino, che si presenta come un signore personale e agisce con la precisa logica di un mondo in cui tutto si può comprare. «Mammona ci inganna cercando di proporsi come qualcosa di stabile, millantando una solidità che non ha, spacciandosi per qualcosa che merita fi ducia. Il denaro inganna perché non offre ciò che promette, è un dio che fa promesse illusorie perché non trasforma le nostre impotenze in potere, né la nostra fragilità in eternità. Mammona non fornisce dunque quella sicurezza che ci si attende da lui». All’opposto, e in modo inconciliabile, sta la logica del dono e della gratuità propria della rivelazione biblica di Dio. La questione del rapporto col denaro non è quindi di natura materiale, bensì spirituale: riguarda l’affi damento della nostra vita.
Il saggio di don Massimo Naro, docente di Teologia sistematica presso la Facoltà teologica di Sicilia (Palermo), propone una riflessione di carattere generale sul confronto con gli umanesimi contemporanei, tratteggiando lo sfondo culturale e antropologico sul quale oggi può prendere forma la proposta di ‘umanesimo cristiano’ e cristocentrico. La riflessione procede in dialogo con i due testi preparatori del Convegno, che lasciano intuire una prospettiva antropologica inclusiva, il cui punto d’attrazione è Cristo Gesù: «È lui il tema centrale e in lui si rintraccia non semplicemente tutto ciò che è cristiano, ma tutto ciò che è autenticamente umano». In questa prospettiva, il dialogo con gli umanesimi contemporanei può divenire interessante stimolo per riscoprire la ricchezza dell’umano che traspare in Cristo Gesù e la sua capacità di indicare una direzione per affrontare le sfi de del presente. In questo senso il ‘nuovo umanesimo’ non nutre la pretesa di imporsi all’attenzione come ‘il vero umanesimo’ ma di offrirsi come «“un umanesimo vero” nella consapevolezza credente che il Figlio eterno del Padre, divenuto uomo nel Maestro di Nazareth, ha accettato e fatto propri, al contempo, tutti i limiti e tutte le risorse dell’umano. In lui s’impersona un “umanesimo sempre nuovo”, un modo cioè sempre efficace e compiuto di vivere l’avventura umana».
L’autore di questo breve e intenso scritto, il sacerdote e poeta José Tolentino Mendonça, è una delle voci più autorevoli e note della cultura cattolica portoghese. La riflessione che qui ospitiamo si propone come un’apologia del silenzio nella sua duplice, ma inscindibile, qualità antropologica e religiosa. Si tratta di un tema spirituale di grande importanza: sperimentiamo in ogni momento come l’attuale società della comunicazione sia paradossalmente caratterizzata da un deficit di ascolto, che richiederebbe quale antidoto la coltivazione dell’arte del silenzio. Indicazione autorevole, ripresa sia dalla tradizione biblica, nella quale spicca una vera e propria «pedagogia del silenzio», sia dalla tradizione cristiana, autentica «scuola di silenzio».
Una preziosa nota di Giuseppe Laras (per molti anni rabbino capo della Comunità ebraica di Milano) sul dialogo tra ebrei e cristiani, di cui l’autore è stato attivo protagonista negli ultimi decenni. Ascoltare la sua voce e le sue preoccupazioni aiuta a cogliere, insieme alle diversità, anche i molti punti di incontro e di sintonia con i nostri ‘fratelli maggiori’. Laras sottolinea alcune questioni importanti da sviluppare: il contrasto dell’antisemitismo, la convivenza pacifi ca tra gli uomini, la lotta al fanatismo religioso. Ma il terreno più suggestivo del comune impegno tra ebrei e cristiani è la promozione della Bibbia come fondamento della cultura e dell’etica nella nostra società, «un impegno religioso possibile, dalla fecondità straordinaria».