Sembra curioso l’accostamento tra l’atto del cucinare e la fi gura di Gesù. In realtà, già solo il capitolo conclusivo del Vangelo di Giovanni ci parla di Gesù risorto intento a cuocere del pesce e del pane per i discepoli. Secondo don Cesare Pagazzi, prete della diocesi di Lodi e docente di Teologia sistematica alla Facoltà teologica di Milano, un’attenta considerazione dei racconti evangelici mostra non solo il gusto di Gesù per la convivialità, ma anche la sua ottima conoscenza della produzione e della preparazione del cibo. In questa attitudine si rispecchia lo sguardo del Creatore che «vide buone tutte le cose», anche quelle che fin dall’inizio accompagnano la vita di ogni uomo: la fame e il cibo. In questo senso, «cucinare è un atto umanissimo che raccoglie con attenzione cose e persone, esaltando il sapore del mondo». Se ‘pastore’ signifi ca ‘colui che dà il pasto’, ‘colui che nutre’, ecco allora che l’arte culinaria, con le sue sensibilità, diventa immagine eloquente del ministero, come suggeriscono le pagine finali del contributo.
L’esperienza della luce nella liturgia non è cosa scontata. Ce lo ricorda in queste pagine don Giuliano Zanchi (prete della diocesi di Bergamo, dove dirige la Fondazione Bernareggi, ed esperto dei rapporti tra liturgia, estetica e teologia). Se nella celebrazione cristiana i sensi umani in generale rivestono grande importanza, la percezione della luce in particolare ha a che fare con il cuore del mistero cristiano, la Pasqua. Questo legame è suggestivamente analizzato dall’Autore nei suoi fondamenti antropologici e nei suoi riferimenti teologici alla resurrezione di Gesù (di cui il cero pasquale è il simbolo), restituendoci l’intuizione che non ogni luce o illuminazione è congrua con la qualità cristiana della liturgia: in questo senso la luce accecante è differente da quella chiaroscurale tipica del mistero pasquale; e più concretamente, le candele elettriche sono ben diverse da quelle di cera. Questa diversità non è senza effetti per l’esperienza dello spirito. L’articolo illustra tale sensibilità attraverso numerosi esempi concreti alle celebrazioni liturgiche e ai loro luoghi, mostrando che «illuminare la liturgia cristiana è compito che interseca sfide pastorali essenziali: in gioco c’è proprio la fede nel risorto e il destino spirituale della vita umana».
L’abitudine della gran parte dei credenti all’ascolto solo liturgico, quindi frazionato, delle Scritture, ha fatto perdere la percezione del loro impianto fondamentalmente narrativo. Eppure Gesù è stato un grande narratore e ancor più è stato il ‘grande narrato’, in sintonia con la grande tradizione biblica veterotestamentaria che dice Dio principalmente raccontando una molteplicità di storie. La narrazione infatti, afferma Luciano Manicardi, monaco della comunità ecumenica di Bose, possiede una caratteristica unica, la sua forza «consiste nella sua capacità di dare senso. Non è la cronaca dei fatti […] Nel racconto i fatti divengono umani, cioè una trama di eventi significativi». Ciò vale in modo eminente per i vangeli, scritti in una forma letteraria che esprime al meglio la novità portata dal cristianesimo. «Essa postula un rapporto particolare con il lettore in quanto tende al suo coinvolgimento, alla sua decisione di fede, alla conformazione del suo cammino esistenziale al cammino compiuto da Cristo stesso. I vangeli sono racconti che prendono per mano il lettore e lo invitano a un viaggio trasformativo». Accostare narrativamente i vangeli – sostiene con acume Manicardi – non è un’opzione ermeneutica fra le altre, ma rappresenta la condizione per comprendere la fede come una storia personale, che coinvolge tutta la persona, storia di una relazione che coinvolge i credenti in una comunità, in una storia vicenda sempre in divenire.
‘Genere’ e ‘generazione’ sono parole che in questi anni di fatto hanno subito profondi cambiamenti di signifi cato, perdendo il loro legame univoco con il sesso biologico: l’idea di maschio non coincide più con quella di uomo e padre, e l’idea di femmina non coincide più con quella di donna e madre. Don Aristide Fumagalli, docente di Teologia morale presso il Seminario Arcivescovile e la Facoltà teologica di Milano, offre su queste pagine una mappa per orientarsi e comprendere le principali correnti culturali che recentemente hanno contribuito ad alimentare quella gender theory che afferma il carattere solo socialmente costruito, e quindi non ‘naturale’, dell’identità sessuale. Come facilmente intuibile, tale teoria è quella soggiacente alla rivendicazione del matrimonio per gli omosessuali. L’intento del saggio va oltre il mero aspetto descrittivo, mostrando come «le attuali questioni circa il genere e la generazione non sono riduttivamente affrontabili sul piano della scienza e del diritto, e tanto meno semplicemente discusse in termini di discriminazione e di equiparazione; esigono l’onestà morale e la preparazione intellettuale necessarie per riconoscervi implicata una più radicale e decisiva questione antropologica».
Queste riflessioni di don Franco Marton, prete della diocesi di Treviso e membro della direzione scientifi ca della rivista «Ad Gentes», intendono porsi in continuità con quelle recentemente pubblicate sulla Rivista da F.L. Bonomo su Presiedere la comunità, presiedere l’eucaristia. Bonomo sosteneva la necessità, nel contesto della nuova evangelizzazione, di ripensare la presidenza «individuando un nuovo ethos presidenziale». Don Marton offre un interessante contributo in questa direzione sostenendo l’urgenza dell’introduzione nello stile della presidenza eucaristica di quell’elemento che potremmo chiamare, con le parole di papa Francesco a Lampedusa, «attenzione al mondo». In passato «a volte si voleva, giustamente, evitare una lettura moralistica del Vangelo, oppure, soprattutto nell’immediato dopo-Concilio, una impropria applicazione sociale e politica della Bibbia. Di fatto oggi si rischia piuttosto di cadere nel pericolo che il Concilio intendeva evitare, quello di “esporre la parola di Dio in termini generali e astratti”. E anche quando si scende alle “circostanze concrete della vita” spesso ci si limita alla vita personale e familiare, raramente allargando lo sguardo alla storia». Introdurre la storia nelle celebrazioni eucaristiche delle comunità cristiane rappresenta così sia un atto di obbedienza alle indicazioni conciliari sia un antidoto alla divaricazione fra culto e vita.