Gilles Routhier, docente alla facoltà di teologia dell’Università Laval, Québec, propone una lettura complessiva del post-concilio, a quarant’anni dalla sua conclusione. Molte e divergenti sono le interpretazioni che vengono date di questo periodo e l’Autore dà lucidamente conto delle principali. La tesi di Routhier, fondata su ampia documentazione storica, è che il Vaticano II ha segnato un passaggio di straordinario rilievo nella storia del cattolicesimo, avendo apportato novità paragonabili soltanto alla svolta costantiniana. La recezione di tale cambiamento non poteva non comportare i problemi di assestamento che hanno caratterizzato questi decenni: «Uscire dall’epoca di cristianità, chiudere l’esperienza della Controriforma e diventare una Chiesa a dimensione mondiale rappresenta una sfida di grande portata», un inevitabile periodo di tirocinio nel quale «la Chiesa cattolica se la sta cavando bene». Su questo tema, data la sua importanza, la Rivista ha programmato altri interventi nel 2005. L’articolo riprende ampiamente una conferenza che l’Autore ha tenuto al seminario arcivescovile di Venegono (Mi) nel novembre scorso, il cui testo viene riportato integralmente nel prossimo numero della rivista «La Scuola Cattolica».
Pubblichiamo la prolusione ai corsi di Introduzione alla Teologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore Milano, recentemente tenuta da mons. Giuseppe Betori, Segretario generale della CEI. L’intervento affronta il tema del significato e del ruolo della teologia nella trasmissione della fede, analizzando in profondità il carattere essenzialmente comunicativo della rivelazione e della stessa fede cristiana. Si tratta di una lettura radicata nell’ambiente ecclesiale italiano, che suggerisce alla teologia «l’impegno a dare corpo a una figura di cristianesimo che sappia far valere tutte le ragioni di plausibilità della fede alla mente e al cuore dell’uomo e della donna contemporanei, interrogandosi anzitutto su come stabilire forme efficaci di comunicazione del Vangelo nel nostro tempo». Al teologo spetta quindi il compito di legare riflessione e vita di fede, evitando quell’autoreferenzialità che contraddirebbe la natura propria della teologia.
Il testo che presentiamo approfondisce, a partire dall’analisi del noto episodio della chiamata di Pietro di Lc 5, alcuni caratteri generali della vocazione cristiana. Don Franco Manzi, docente di esegesi presso il seminario di Venegono (Mi), ricava dal testo lucano almeno due preziose indicazioni: anzitutto il radicamento storico-biografico – «drammatico» – della risposta alla chiamata di Gesù; in secondo luogo il superamento di una concezione della vocazione come autonoma determinazione personale del credente, a prescindere dai segni dello Spirito santo. Infatti, sottolinea don Manzi, «anche dal punto di vista della nascita e della maturazione “drammatica” delle molteplici vocazioni ecclesiali, il primo dei segni per riconoscere la presenza attiva del Signore risorto e, dunque, anche per sentire e discernere correttamente la sua chiamata alla multiforme sequela, è la Chiesa».
La pastorale quotidiana è intessuta anzitutto di relazioni e la sua efficacia dipende molto dalla qualità dei legami che riesce a coltivare. Questa convinzione caratterizza il contributo dei coniugi Gilberto Gillini e Mariateresa Zattoni, consulenti psicologi e docenti presso l’Istituto Giovanni Paolo II per la famiglia di Roma. La loro riflessione sviluppa la prospettiva psicologica che, in determinati tipi di relazione, la migliore definizione di sé passa attraverso la propria migliore definizione dell’altro. Se ciò sta, si comprende quindi che, anche nel complesso ambito pastorale odierno, la ricerca della valorizzazione dell’altro rappresenta il primo passo per instaurare una relazione feconda nel comunicare la fede. Gli Autori guidano alla scoperta di questa piccola verità, convinti di non proporre solamente una strategia vincente, ma di suggerire uno stile di relazione positivo ed evangelico, sul modello di quello vissuto da Gesù.
«Da persona a persona»: è il tratto saliente di quel volto missionario che i vescovi chiedono alle parrocchie italiane di assumere (cfr. CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n. 6). Per continuare a trasmettere la memoria cristiana, per continuare ad annunciare in modo efficace il Vangelo, le parrocchie sono chiamate a rilanciare, a tornare a scommettere su quella che è la loro identità profonda, la loro funzione primaria: far vivere la tradizione cristiana dentro il tessuto quotidiano della vita della gente, laddove si costruiscono quei legami sociali primari che strutturano la base, il tessuto portante della società, della cultura, e anche della Chiesa.
Dentro questo quadro, l’esperienza della parrocchia di Pentecoste (periferia di Milano), raccontata dal suo parroco (don Alberto Bruzzolo) al Convegno missionario nazionale dello scorso settembre, ci è sembrata uno stimolo significativo. È capace infatti di mostrarci in termini semplici e molto quotidiani (e per questo efficaci) cosa significa immaginare una vita parrocchiale che fa del principio «da persona a persona» il proprio punto di riferimento, il cardine della propria progettazione pastorale e della propria vita ecclesiale. Mostrandoci anche i guadagni di una simile operazione. In primo luogo, una reimpostazione della parrocchia a partire da questo suo tratto saliente può essere l’occasione attesa per dare maggiore slancio alla recezione dentro la nostra pastorale di quegli elementi che il Concilio Vaticano II ha inteso collocare come assi portanti della vita ecclesiale: l’ascolto comune e condiviso della Parola, il primato della celebrazione eucaristica domenicale, una comunità cristiana locale che si sente e si presenta come popolo di Dio che nel quotidiano testimonia la salvezza che Dio ci ha donato nel suo Figlio, Gesù Cristo. In questo caso, il principio «da persona a persona» suona come un invito: è proprio ogni singolo cristiano il destinatario di questi doni, di questi tesori che la Chiesa custodisce e trasmette. Ed è compito della parrocchia farsi carico della comunicazione di questi doni nel tessuto dimesso e abitudinario della vita di tutti i giorni, nel reticolo frequentato e quasi consunto dei nostri tragitti quotidiani. In secondo luogo, reimpostare la parrocchia sull’asse «da persona a persona» significa esaltarne ulteriormente quella dimensione missionaria già più volte richiamata e messa in luce dai vescovi italiani. Ricordando in questo caso che i confini dell’istituzione parrocchiale non devono (non possono) coincidere con quelli delle sue strutture murarie, ma semmai con quelli tracciati dalle persone che vivono nel suo spazio, che questo suo spazio lo attraversano, e che da questo attraversamento si attendono comunicazione di speranza e di salvezza. Più ancora, «da persona a persona» suona come un monito alla parrocchia, perché sappia portare sino a questo livello la tensione missionaria che anima tutta la Chiesa, e che la rende testimone in ogni luogo, anche nel più piccolo ed isolato, di una comunione universale che lega ogni tempo e ogni spazio all’unica Chiesa di Cristo che attraversa la storia e le culture. Da ultimo infine, «da persona a persona» si presenta come un invito al realismo. Ricorda cioè alla parrocchia quello che essa è: una istituzione incaricata di rendere visibile la Chiesa nella storia degli uomini; ma non la sola istituzione a cui è affidato il compito di rendere visibile la totalità del mistero della Chiesa, la sola istituzione a cui è chiesto di annunciare il messaggio cristiano nella sua globalità. «Da persona a persona» indica una dimensione imprescindibile dell’annuncio del Vangelo, non il suo esaurimento. Accanto alla parrocchia è giusto e doveroso che ci siano altre figure ecclesiali, altre forme per dire in modo comunitario e partecipato il ‘noi’ ecclesiale, il ‘noi’ della fede cristiana. Accanto, tuttavia, e non in sua sostituzione, secondo quella logica di una pastorale integrata che il documento della CEI ha ultimamente inteso mettere in rilievo. Alla luce di queste semplici sottolineature si può comprendere ancora meglio il carattere esemplificativo della testimonianza dell’esperienza parrocchiale di Pentecoste, la sua funzione di stimolo: come questa, anche altre parrocchie italiane possono impegnarsi in una operazione di rilancio della propria identità primaria, di quella dimensione particolare «da persona a persona» che fa di queste istituzioni il punto più avanzato, la frontiera più esposta della Chiesa, nella sua azione di innervamento del cristianesimo dentro la società e la cultura. Senza alcuna intenzione obbligante, un simile racconto è piuttosto un invito a tentare le strade di un rinnovamento pastorale che intende coniugare semplicità e fedeltà evangelica, fattibilità e testimonianza ecclesiale, attenzione agli ultimi e disponibilità a tutti, attenzione alle istituzioni e amore per la Chiesa.
Pubblichiamo la seconda parte dello studio sulle Società Bibliche di C. Buzzetti e G. Bachelet (cfr. 1/2005, pp. 53-62), dedicata alla spiritualità di chi se ne fa promotore. Fondata sul servizio alla diffusione della Parola, che precede e relativizza le particolarità confessionali, essa ha i caratteri di un’autentica educazione al primato della Parola su ogni altra realtà. L’analisi si concentra poi sulla situazione italiana, in particolare sul laicato cattolico, per verificare la possibilità che la spiritualità interconfessionale possa diffondersi maggiormente in un contesto dove peraltro la Società biblica italiana ha già raggiunto lusinghieri obiettivi.