Il vescovo di Lille (Francia), mons. Gérard Defois, ha invitato fr. Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, a svolgere questa relazione al presbiterio della diocesi riunito per la celebrazione della Messa crismale. Pubblichiamo il testo del suo intervento, che vorrebbe essere un contributo all’approfondimento e alla comprensione dell’ars celebrandi, con particolare attenzione all’ars celebrandi del presbitero nella sua presidenza eucaristica. Al centro di questa riflessione c’è infatti l’eucaristia, colta come fonte che alimenta la spiritualità del presbitero, che plasma la sua vita, e al tempo stesso come la massima epifania del suo presiedere la comunità cristiana. Nella celebrazione eucaristica il presbitero è chiamato a «fare segno» a Cristo, a far «vedere oltre», e dunque gli è richiesta un’exousía, un’autorevolezza che rifugga da ogni sciatteria e meccanicismo, ma anche da ogni protagonismo: i gesti liturgici devono raccontare l’azione di Dio e non diventare azione di chi li compie. Una particolare insistenza viene posta sul «mens concordet voci», sulla consonanza tra ciò che si dice con le labbra e ciò che si pensa con il cuore, sull’attenzione da porre affinché emerga quella bellezza che è sempre eloquenza efficace del gesto e della parola.
L’articolo di Giacomo Canobbio (docente di Teologia sistematica alla Facoltà teologica di Milano e al seminario di Brescia) fa il punto su una questione molto dibattuta a livello teologico, quella del valore universale della salvezza in Gesù Cristo. Questo principio tradizionale della fede cattolica è stato ribadito dalla Dichiarazione Dominus Jesus a fronte di alcuni filoni della recente teologia delle religioni, secondo i quali limitare l’esperienza della salvezza al cristianesimo significherebbe contrastare lo stesso piano di Dio che prevede il pluralismo religioso. L’Autore, recensendo tali orientamenti, sottolinea la necessità di approfondire il concetto di ‘salvezza’. Essa non va definita in base alle esperienze e alle attese umane, bensì a partire dalla rivelazione di Dio in Gesù Cristo, che le ha assunte, ‘aperte’ e portate a compimento. In questo senso «salvezza è configurazione a un uomo della storia che è l’autocomunicazione di Dio, poiché in esso è dato vedere quale sia l’umano compiuto. È per questo che si può plausibilmente continuare a sostenere che “non c’è alcun altro nome nel quale essere salvati”».
Tema non ovvio quello della solitudine del prete. Esiste infatti una solitudine intrinseca alla vita del presbitero (come peraltro di ogni uomo): è la solitudine ‘amica’ del rientrare in se stessi, nella compagnia grata del Signore, fonte di ogni ministero che conservi la freschezza delle origini. Ma esiste anche una solitudine ‘nemica’, quella dell’assenza di relazioni vitali, della rassegnazione all’accidia pastorale e del fallimento della propria parabola esistenziale. Occorre guardare in faccia questa solitudine, che, quando si cronicizza, decreta il vuoto dell’anima. Fronteggiarla è un dovere per ogni prete che intenda restare fedele alla sua vocazione, che voglia dare un contenuto alla carità da usare a ogni confratello, e per ogni vescovo che voglia essere all’altezza della responsabilità verso il presbiterio affidatogli. Della solitudine ci parla, con speranza e toni efficaci, padre Felice Scalia S.J., docente all’Istituto superiore di scienze umane e religiose di Messina.
È raro che la Scrittura racconti di chiamate prontamente accettate. Spesso alla vocazione di Dio vengono opposte resistenze, se non addirittura rifiuti. Peraltro ogni discepolo in svariate maniere si difende dal Signore, dalla sua richiesta di abbandonare la propria rassicurante terra per seguirlo in un cammino mai noto a priori. La vita, soprattutto quella obbediente a Dio, non è mai un lungo fiume tranquillo. Don Franco Manzi (docente di Esegesi presso il seminario di Venegono) offre in queste pagine la ricca casistica neotestamentaria delle resistenze alla vocazione apostolica, sia quella operata da Gesù sia quella suscitata dallo Spirito. Ciascuno ha modo di ritrovarvisi. Come pure di cogliere la tenacia con cui lo Spirito si rivolge alla libertà dell’apostolo.
Dopo essere intervenuto in margine alla 56ª Assemblea generale della CEI «sul modello di prete oggi» (7/8, 2006, pp. 519-530), indicando il presbiterio come luogo decisivo per definire un profilo di ministro ordinato per la Chiesa di oggi, nel presente contributo don Dario Vitali (docente di Teologia dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma) prosegue quella riflessione, mirando a fondare la teologia del presbiterio nella teologia del sacerdozio. La tesi proposta dall’articolo, ricca di conseguenze pastorali, è che il sacerdozio «partecipato dal vescovo e dai presbiteri, si manifesta e si esercita in forma radicalmente comunionale, fondata su un legame di reciprocità tra vescovo e presbiterio, per cui non esiste presbiterio che intorno a un vescovo e, reciprocamente, non esiste un vescovo senza il “suo” presbiterio».